La nuova legge di stabilità prevede per il 2017 un deficit fiscale (la differenza fra spese ed entrate dello stato) pari al 2,3 per cento del nostro prodotto interno lordo (Pil), sforando dello 0,1 per cento il limite indicato dalla Commissione europea, che vigila sulla stabilità dei conti pubblici in Europa.
Il dogma del rigore fiscale è presente fin dall’avvio dell’unione monetaria, per evitare la tentazione per i paesi partecipanti di aumentare il loro deficit di bilancio confidando nell’aiuto degli altri membri. In Italia fu il Governo Monti a imporre un severo risanamento dei conti pubblici, in seguito alla crisi di credibilità che nel novembre 2011 culminò con gli umilianti sorrisetti di Merkel e Sarkozy all’indirizzo di Berlusconi.
L’austerità fiscale, però, può essere controproducente: come ci ha insegnato la depressione del 1929, nel mezzo di una crisi economica l’aumento della spesa pubblica o la riduzione delle imposte (con effetti che possono essere ben diversi fra loro e sui quali ci sarebbe molto da aggiungere) sono i soli strumenti che possano sostenere la domanda di beni e servizi e rompere così il circolo vizioso prodotto dal calo dei consumi delle famiglie, degli investimenti delle imprese e della domanda estera. È vero, una tale ricetta ignora gli effetti di lungo periodo sul debito. Ed è anche vero che abbiamo già un rapporto fra il debito pubblico e il Pil che è superiore al 130 per cento e che prima o poi dovrà essere ridotto. Senza contare poi che spesso la spesa pubblica è guidata dalla corruzione e dagli interessi dei politici più che dalle necessità dell’economia.
Ma “nel lungo periodo siamo tutti morti”, come recita una frase famosa di Keynes, quindi meglio pensare al breve periodo, cioè all’oggi. L’austerità, inoltre, potrebbe far aumentare la già alta disoccupazione e ridurre il Pil in misura anche maggiore della riduzione del debito pubblico. Anziché diminuire, quindi, il rapporto fra quest’ultimo e il suo denominatore aumenterebbe, com’è accaduto effettivamente in Grecia nonostante gli insopportabili sacrifici sostenuti dai suoi cittadini. E l’esempio virtuoso dei paesi scandinavi dimostra che sia senz’altro possibile spendere in maniera oculata i soldi delle imposte e delle tasse pagate dai contribuenti.
La ricetta per uno sviluppo duraturo la conosciamo: si basa su riforme che facilitino l’efficienza economica, l’innovazione tecnologica e l’internazionalizzazione delle imprese. Ma prima ha da passà ’a nuttata e se il mercato da solo non riesce a farcela superare, allora lo Stato dovrà fare, temporaneamente, la sua parte.
*docente dipartimento di Economia e Management Università di Pisa