Uno staterello affacciato sul Golfo Persico si è messo in testa di diventare il centro del mondo. Dopo essere stato una necessità per i rifornimenti nei voli a lunga percorrenza all’epoca del blocco sovietico, complice la crescita esponenziale della sua compagnia aerea di bandiera, all’aeroporto di Dubai hanno iniziato a sostare sempre più passeggeri in volo tra Asia e Europa. È allora che qualcuno ha pensato che fosse intelligente costruire Dubai intorno a quell’aeroporto.
A vela spiegata
Fino ad allora non era altro che uno snodo commerciale. Ma i passeggeri possono diventare visitatori, soprattutto se si hanno soldi da investire. E quando si parla di emiri, i soldi non sono un problema. Quanto agli investitori stranieri, quelli ronzavano intorno al piccolo emirato già dagli anni Ottanta, visti anche i favori del fisco. Quando si dice costruire, in queste terre baciate dal petrolio (Dubai meno di altri emirati, a dirla tutta), non si intendono quasi mai strutture standard. Certo esistono comuni alberghi, ma chiunque dorma a Dubai cerca dalla propria finestra la silhouette della “vela”, l’epiteto con cui è conosciuto l’hotel Burj al-Arab (Torre degli arabi), che simboleggia in ambito ricettivo la ferma intenzione di strafare dei ricchi a queste latitudini: le stelle sarebbero 7 e il fatto che questioni burocratiche gliene attribuiscano solo 5 è un dettaglio. Il ristorante sottomarino disponibile per gli ospiti e la possibilità di essere venuti a prendere e riportati in limousine all’aeroporto sono in fin dei conti caratteristiche meno bizzarre di quanto non sia il luogo che ospita la struttura, un’isola artificiale – Jumeirah – collegata alla terraferma da un ponte di quasi 300 metri. 1 delle 3, in verità, inaugurate con il nome di Isole delle Palme (poco importa se siamo in mezzo al deserto) qualche anno fa da un mini-concerto di Kylie Minogue per cui la star australiana si narra abbia ricevuto un compenso di quasi 2 milioni di dollari.
Palme d’oro
La megalomania del progetto-palme, su cui naturalmente si è riversata la bile degli ambientalisti di tutto il mondo, sarà conclusa solo al termine dei lavori dell’ultima delle 3 isole, Palm Jebel Ali, il cui disegno, visto dall’alto, consentrà di leggere una sorta di haiku sulla capacità dei grandi uomini di scrivere sull’acqua, con gli edifici nel ruolo di lettere. Ma perché limitarsi a dragare sabbia per 100 milioni di metri cubi (questi i dati per le prime 2 isole realizzate) quando puoi riprodurre il mondo intero, con tutta la sabbia che c’è nel golfo. È questo il progetto The World, concepito da Mohammed bin Rashid Al Maktoum (lo sceicco Mo, come lo chiamano tutti) e inaugurato nel 2008: 300 microisole che viste dall’alto formano l’intero planisfero. Il lusso, una volta ultimato il progetto, sarà quello di fare colazione a croissant in Francia, pranzare sorseggiando Chianti in Italia e trangugiare birra bavarese durante una cena in Germania.
Mania di grandezza
Si può inorridire, certo (lo fanno i suddetti ambientalisti), ma se ne può anche sorridere: per apprezzare Dubai ci vuole una buona predisposizione verso il suo senso del kitsch. A quel punto il soggiorno assume connotazioni da thriller: quale sarà il progetto più assurdo? Il parco divertimenti grande il doppio di Disneyland? Il centro commerciale con 1.200 negozi? La stazione sciistica in pieno deserto? O la porzione di città interamente climatizzata? Delle realtà sopracitate, solo l’ultima non esiste. O meglio non ancora: se tutto va come nei piani, vedrà la luce prima di Expo 2020, appuntamento per cui Dubai si sta preparando da tempo. È la cosiddetta economia creativa, che a detta della famiglia reale dovrà garantire un futuro alternativo a quello assicurato dal petrolio, risorsa non infinita. Ma garantirlo a chi, visto che circa l’80 per cento dei 2 milioni di abitanti di Dubai sono immigrati per lo più asiatici vittime della Kafala, un sistema di reclutamento che rasenta la schiavitù?
Carta d’identità
«Cambieremo», assicura nelle interviste lo sceicco. In favore del cambiamento, pochi mesi fa, è stato istituito il Ministero della felicità, affidato ad una ventiduenne. Un’iniziativa che sa molto di slogan, ma tant’è. Altro slogan che da qualche tempo rimbomba nelle vie trafficate di Dubai è la necessità di valorizzare il passato e le tradizioni: va in questa direzione la rivalutazione del quartiere di Al Fahidi, centro storico in cui le vecchie abitazioni sono state riconvertite in caffè e gallerie. Non importa quanto si riesca a scavare indietro nel passato (di Dubai non si ha memoria prima del 1800), ciò che conta è avere un’identità. E allora nella vecchia zona industriale di Alserkal, riconvertita all’arte (35 gallerie ex novo in un anno), c’è spazio anche per Ghada Amer, la più famosa artista del mondo arabo, e non solo per designer di Barcellona o New York. E per contestualizzare la vacanza ci sono anche i vari suk, quello dei tessuti, dei profumi, delle spezie e dell’oro, oltre ai tour nel deserto con jeep d’epoca in puro stile beduino. Poi c’è il recentissimo Dubai Garden glow, un parco a tema naturalmente gigantesco con installazioni di 150 artisti. Obiettivo: sensibilizzare bambini e adulti sulla necessità di ridurre le emissioni di anidride carbonica. Si, è lo stesso paese che vuole climatizzare una parte di città. Non appellatevi alla coerenza, se volete godervi Dubai.