D’altro cantone

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16 Aprile 2016
Orologi e cioccolato, certo, ma anche arte e musei, boschi e verdi colline che incorniciano il suo lago, e una storia passata e recente che della Svizzera dei banchieri ha ben poco. L’altra faccia di Zurigo, dove la sperimentazione culturale e sociale iniziò con i dadaisti e con un russo soprannominato Lenin.
di Alessandra Bartali

Si dice Svizzera e si pensa a orologi a cucù e cioccolato, a banche e stili di vita borghesi. Come spesso succede, la città principale del paese, però, va ben oltre i suoi stereotipi. Che esistono anche a Zurigo, sia chiaro: filiali di Credite Suisse si incontrano a ogni angolo, la domenica il lungolago è affollato di famigliole scese dai loro suv a 6 marce e uno tra i più grandi orologi d’Europa campeggia sulla torre della St Peterskirche, la chiesa più antica della città. Agli orologi, poi, è dedicato uno dei musei più visitati in loco: il Beyer Museum ne racchiude una collezione sterminata, con pezzi che spaziano dagli automatici del Rinascimento al prototipo del primo orologio da polso al quarzo. Ma di certo Zurigo non è tutta qui.

Stato dell’arte

Il Beyer Museum è interessantissimo per gli amanti degli oggetti d’epoca e per contestualizzare una città nel suo paese (in un’epoca in cui le città si somigliano sempre di più), ma è l’arte a fare da padrona nei musei locali, che nel Kunsthaus Zürich parla il linguaggio di Chagall, Munch, Delacroix e Giacometti. L’arte, qui come in ogni città che possa definirsi tale, si intende nella sua accezione più moderna ed ampia, come dimostra il Museum für Gestaltung, un centro espositivo di tutto ciò che ha a che vedere con la forma, dalla comunicazione visuale alla cultura quotidiana. Un robot anni Ottanta o un manifesto pubblicitario della Cynar raccontano (da 140 anni, quando al design non facevano caso nemmeno gli svedesi) l’anima di Zurigo molto più di quanto non faccia il grande Museo Nazionale Svizzero, con le sue botti ottocentesche e i suoi utensili agricoli della Svizzera ante litteram. Uscendo dalle scatole chiuse della cultura, la dicotomia tra Zurigo e la Svizzera (quella con la v che si legge f e la r dura alla tedesca) salta fuori a più riprese. Ci sono strade come la sfarzosa Bahnhofstrasse, dove borse, abiti e naturalmente orologi costano cifre a tre zeri (tanto che i locali storpiano il nome di questa parte di città in zu-reich, troppo ricca), dove però in certe occasioni migliaia di corpi seminudi ballano al ritmo di musica elettronica sparata a tutto volume (la Street Parade, ad agosto). Ci sono chiese dalla severa e sobria architettura protestante, e altre con al loro interno finestroni decorati da Chagall. C’è un centro storico fiabesco che si allunga fino ad un lago, lo Zürichsee, circondato da boschi e verdi colline, e c’è la zona di Züri-West, con showroom nati sotto il viadotto ferroviario e quello che rimane dell’ex quartiere a luci rosse.

Rivoluzione svizzera

E anche la storia recente, che vede la Svizzera un paese poco propenso ad immischiarsi nelle dinamiche sociopolitiche europee, ha in realtà due facce: nella prima parte del Novecento i cantoni si dichiararono sì neutrali rispetto ai conflitti bellici, continuando a vivere nella loro dimensione borghese mentre nel resto d’Europa il sangue scorreva a fiumi. Ma proprio questa neutralità attrasse migliaia di esuli. Alcuni dei quali animati da idee ardite, come un certo Vladimir Il’icˇ Ul’janov (detto Lenin), che proprio in questa nazione indifferente gettò le basi teoriche per l’insurrezione proletaria. Prima di andarsene, “deluso da questi socio-pacifisti svizzeri”, come scrisse lui stesso con un certo astio, Lenin abitava a Zurigo non lontano dal Cabaret Voltaire, dove nel 1916 altri esuli gettarono i semi di un’altra rivoluzione, quella dadaista. Mentre altrove la prima guerra mondiale faceva le sue vittime, in questo angolo di Svizzera si sperimentavano espressioni artistiche di ogni tipo. E lo si fa ancora oggi, seppur con un programma molto meno rivoluzionario. Un secolo dopo, gli abitanti di Zurigo non sono diventati tutti gnomes, termine spregiativo con cui gli anglosassoni indicano i banchieri locali, quelli con la ventiquattrore dello stesso colore di scarpe e cappotto, sopra un abito dalle varie sfumature di grigio.

Gli alternativi

Per le strade girano, infatti, anche ambientalisti convinti che pranzano in locali come l’Hitl, il primo ristorante vegetariano al mondo, intervallati dagli eccentrici studenti della facoltà universitaria di arti applicate, allestita nel West tra ex capannoni industriali riconvertiti e store zeppi di accessori ricavati da materiali di riciclo come airbag scoppiati e teloni di camion. Gente che in comune con i banchieri ha solo il Züritüütsch, variante del tedesco difficile come la sua grafia. Quasi spariti alla vista sono invece i tossicodipendenti che negli anni Novanta pullulavano nel Platzspitz, noto all’epoca come needlepark, il parco delle siringhe più famoso d’Europa, grande onta nel cuore della Svizzera operosa e benestante. Dall’epoca delle cosiddette scene aperte l’intero cantone germanofono è uscito grazie ai programmi di distribuzione controllata di eroina, così adesso non solo quel parco è tornato a svolgere la sua funzione pubblica, ma i numeri di tossicodipendenti locali sono considerevolmente calati. In modo simile si sta trattando la prostituzione, come dimostrano alcuni sex drive in di periferia, dove le donne possono contare su un ambiente pulito, visite mediche garantite e su alcuni assistenti sociali a loro disposizione. La rivoluzione proletaria sarà naufragata, ma Zurigo continua a cercare soluzioni socialmente alternative a quelle dominanti.