Per loro le etichette si sprecano: Millennials, Generazione Y o Net generation, in parole povere ecco i ragazzi fra i 15 e i 35 anni, così come ce li mostrano studi e ricerche che costringono il mondo degli adulti a confrontarsi con qualche luogo comune e cliché di troppo, perché – è risaputo – le formule definitorie dicono tutto e niente. Pochi, sempre meno, in contesti sociali ed economici avversi, tuttavia i più istruiti della storia patria, quelli che conoscono meglio l’inglese, che viaggiano, che capiscono la tecnologia, che sanno usare internet, capaci di adattarsi, pronti a cogliere ogni opportunità, focalizzati sul presente per prepararsi a un futuro incerto – si sa da sempre e per definizione – oggi, però, così imprevedibile che non si può immaginare. Tanto a che serve?
Che stereotipo sei?
«Sul piano sociale persiste una visione stereotipata dei giovani del nuovo millennio visti, nella migliore delle ipotesi, come pigri, accucciati nelle famiglie d’origine e con poco desiderio di autonomia. Stereotipi che più volte il Censis ha smentito – spiega Francesco Maietta, responsabile politiche sociali della Fondazione Censis –, ma che sono fortemente radicati nella percezione collettiva e nella retorica dei media. D’altro canto, è forte in molti giovani la percezione di essere penalizzati, resi marginali da adulti e anziani che non vogliono mollare la presa sulle loro posizioni, dal mercato del lavoro alla distribuzione di reddito e patrimoni fino ai consumi. La verità sta nei numeri – precisa Maietta –: i giovani sono una componente numericamente decrescente e minoritaria della società, senza dubbio in condizioni economiche difficili, ma con una capacità di adattamento e di reazione a cui sarebbe opportuno dare il giusto valore. Agli impegni lavorativi dedicano tempo ed energie, è forte la propensione ad adeguarsi alle occupazioni che riescono a trovare, così come la spinta a crearsi il lavoro». Ma tra gli stereotipi affiora una contraddizione. Questa società, che ci vuole giovani a ogni costo e sempre più a lungo, che ostenta modi e comportamenti tipici della gioventù, o presunti tali, ai giovani veri è poco attenta, più giovanilista che capace di aiutarli a coniugare i verbi al futuro.
Con la minima cura
«La società attuale si prende poco cura dei giovani, ma non solo di loro. Non si occupa dei giovani come degli anziani, dei boschi come dei paesaggi. È l’atteggiamento del “prendersi cura” che è carente. Le persone sono per lo più considerate come consumatori, perciò si sa molto dei loro modi di spendere denaro, ma ci si interessa assai poco dei loro reali bisogni e della loro interiorità – concordano Giovanna Carlo, psicoterapeuta e didatta Arpa (Associazione per la ricerca in psicologia analitica) di Roma e Marcella Merlino, psicanalista di Arpa, dopo un confronto sul tema –. E rispetto a questa società i giovani sono distaccati, sospettosi e diffidenti e ne hanno ben donde». A conferma arrivano i dati di una recente indagine commissionata dall’Associazione delle Cooperative di Consumo del Distretto Tirrenico alla società di ricerca Kkienn che descrive una generazione a cui non si fa spazio: più dell’80 per cento vive ancora in famiglia, il 60 per cento non ha un lavoro e di questi giovani più dell’80 per cento si dichiara pronto ad emigrare all’estero, e non sono solo intenzioni: una parte significativa lascia sul serio il nostro paese. Le ragioni le conosciamo, ma il solo fatto di elencarle ci aiuta a capire la gravità delle implicazioni.
Problemi di famiglia
Secondo Maietta «è forte la tentazione di colpevolizzare i genitori, anche perché esiste un diffuso giovanilismo che sembra aver fatto saltare le normali fasi della vita. Credo che oggi le famiglie esercitino soprattutto un ruolo di ammortizzatore sociale, se è vero che è di circa 4,8 miliardi l’anno il supporto monetario che arriva ai Millennials dalle famiglie d’origine. Riguardo al rapporto e al dialogo tra genitori e figli – aggiunge Maietta – credo che riflettano in modo paradigmatico le dinamiche sociali che vedono crescere le relazioni intragenerazionali: una recente indagine del Censis ha mostrato che i giovani più degli altri tendono ad avere rapporti, sul posto di lavoro come nel tempo libero, con persone della loro età, solidali tra loro in un contesto considerato ostile». Ecco che la famiglia rappresenta sì un punto di riferimento economico, ma i modelli e gli esempi da seguire sono altri: «il gruppo dei coetanei e gli idoli del successo, dalla veline alle pop star, come sono presentati dall’industria dell’immagine, rifatti nel corpo e nell’anima – aggiungono Carlo e Merlino –. Questo ci dice che le famiglie stanno vicine ai figli, nel senso che si preoccupano molto, ma spesso nel modo sbagliato. Per esempio, limitando troppo la libertà personale e impedendo loro di fare esperienze dirette per confrontandosi con le difficoltà della vita. Diciamo che si preoccupano, ma senza un orientamento educativo chiaro, finendo per acuire i problemi, anziché risolverli». Si comprendono meglio i dati del Censis da cui viene fuori un paese diviso in vere e proprie tribù generazionali che non comunicano tra loro. Più diffusi tra i giovani gli “isolazionisti”: il 10 per cento di chi ha tra i 18-34 anni non vuole avere rapporti con persone di altre età, il 10,8 per cento fa acquisti solo in presenza di un commesso giovane, il 12 per cento accetta consigli solo dai coetanei, per dare alcune cifre a titolo d’esempio. Vedono gli adulti «inutili e noiosi, lontani dai lori interessi, poco realizzati e per niente felici, perciò non vogliono essere come loro», affermano Carlo e Merlino dal loro osservatorio privilegiato.
Il posto in gioco
Un isolamento generazionale che ha dietro anche altre motivazioni, come risulta chiaro dell’ultimo rapporto annuale dell’Istat: il lavoro è precario (e quindi è pressante la competizione), le reti di protezione sociale sono piene di smagliature e i Millennials reagiscono legittimandosi tra loro. «È evidente che il modello lavorativo odierno non è costruito intorno ai giovani; mentre si chiede loro di sacrificarsi e di ridimensionare le aspettative, molti adulti rafforzano le loro comode rendite di posizione», afferma senza mezzi termini Francesco Mattioli, ordinario di sociologia all’Università “La Sapienza” di Roma –. Chi finora ha detto di lavorare per il futuro dei giovani, è stato solo su un pulpito a rastrellare consensi. Mentre è necessario che i governi oggi gestiscano e progettino la società in base alle prospettive di lavoro e di integrazione dei giovani; altrimenti domani questa società, che è già competitiva, diventerà un terreno di scontri tra bande», avverte Mattioli. Su questo punto non ci sono dubbi: non è un paese per giovani. «Troppo poco si è riflettuto sul fatto che la flessibilità nel lavoro senza un welfare adeguato ha significato solo la privatizzazione dei costi a fronte di vantaggi di cui hanno beneficiato in primo luogo le imprese – rimarca Maietta –, scaricando il peso sui giovani e le famiglie. Certo, non si può tornare a schemi sociali e d’impresa del passato, tarati su mercati poco aperti all’esterno e con cicli di vita molto strutturati e standardizzati. Ma se così è, allora occorre il coraggio di costruire istituzioni sociali che possono accompagnare e dare forza alle persone che fluttuano nel mercato del lavoro affinché non siano colpiti in modo irreversibile i loro progetti di vita», completa il ragionamento Maietta.
Futuro remoto
In pratica è ora di mettere a punto strumenti adeguati che facilitino l’accesso dei giovani al lavoro, alla casa, al credito ecc. Invece di accusarli di non mettere su famiglia, cominciamo a non mettere loro i bastoni tra le ruote. Un altro cliché sfatato, perché la generazione cresciuta a pane e tecnologia la capacità di adattarsi, di cambiare, di imparare cose nuove ce l’ha, eccome. «Metamorfosi contro conservazione, sociale contro privato sono le caratteristiche di fondo dei Millennials, nel senso che – chiarisce Massimo Di Braccio, direttore di Kkienn – vogliono cambiare il mondo, con prudenza, da riformatori, più che da rivoluzionari. Un cambiamento diverso da quello sognato dalla generazione del ’68: il progetto di una società più giusta. Quello che cercano è la felicità oggi, praticabile, individuale, anche se per tutti, basata sulla capacità di cogliere le opportunità: viaggiare ed emigrare, integrarsi e confrontarsi con altri popoli e culture, vivere la tecnologia digitale, espandere i diritti delle persone e le libertà individuali – dichiara Di Braccio –. All’accelerazione del ritmo di cambiamento i giovani del nuovo millennio dicono “sì”, con l’ottimismo e l’energia della loro età». È così che si preparano al futuro, senza spirito di ad-ventura, nel senso letterale dell’“andare verso le cose future”, concentrandosi sul presente.
Di doman non c’è certezza
«Quando i giovani guardano al futuro lo fanno in due modi: come giovani, con speranza; come membri di una società individualista e cinica, guardano con preoccupazione all’armatura che devono indossare se vogliono sopravvivere nella battaglia che li aspetta. Allora si capisce perché qualcuno, meno dotato, resta al palo; e perché qualcun altro, meno forte, meno aiutato o motivato, fa un passo indietro e la serenità se la va a cercare in una bottiglia o in una pasticca, consumata nel calore del suo gruppo », dice in tono preoccupato Mattioli. Ma per il responsabile delle politiche sociali della Fondazione Censis siamo di fronte a un altro stereotipo: «Potrà sorprendere, ma a prevalere è nettamente la speranza. Non è un caso che tra i giovani del nuovo millennio si registri la quota più alta di persone che pensa che il meglio dell’Italia è davanti a noi. È forte la loro voglia di guardare avanti, come dimostra la propensione a fare impresa, cioè a costruire un progetto economico nel quale investire tempo, soldi ed energie ». Alle stesse domande: «hanno fiducia in loro stessi e nel futuro? Prevale la paura o la speranza?», le risposte di Carlo e Merlino mettono in dubbio il pensiero positivo dei giovani d’oggi. «Tendenzialmente non hanno fiducia in loro stessi e poche sono le aspettative verso un futuro che vedono incerto e nebuloso. Spesso le possibili iniziative sono paralizzate dalla paura o, all’opposto, si difendono – nel senso che attivano meccanismi di difesa – con atteggiamenti grandiosi da supereroi, illusori, destinati inevitabilmente al fallimento». Le esperte mettono in discussione anche la presunta socialità di questa generazione: «Hanno molte informazioni e molti legami virtuali, ma poche relazioni affettive e sociali vere, quelle che comportano delusioni, oltre che gioie, che costringono a mettersi in gioco davvero, che non possono chiudere con un clic. Prevalgono un atteggiamento alessitimico (letteralmente “non avere parole per le emozioni”, ndr), cioè hanno scarsa capacità di riconoscere ed esprimere i loro stati d’animo, e la paura dei contatti concreti». Se questo è lo spirito del loro tempo o, con una formula meno impegnativa, lo stato d’animo prevalente sarà anche per l’incapacità degli adulti di oggi di costruire per gli adulti di domani baluardi psichici e istituzionali. Visto che, per dirlo con la battuta di un comico tedesco degli anni Trenta, “il futuro non è più quello di una volta”.
I vecchi e i giovani
57% delle persone erano giovani con meno di 35 anni nell’Italia del miracolo economico, in quella del letargo di oggi rappresentano il 35% della popolazione.
13,2 milioni i 65enni e oltre, aumentati dal 2001 del 24,2% (2,6 milioni in più); 9 milioni in più rispetto all’Italia degli anni Cinquanta.
17,3% (-2,3 milioni) la diminuzione dei ragazzi tra i 15 e i 35 anni negli ultimi 15 anni.
70% dei ragazzi italiani tra i 15 ai 35 anni ha un’istruzione superiore; 83% vive in famiglia