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Una lenta evoluzione che comincia da piccoli alla conquista dell’indipendenza psicologica ed emotiva – prima ancora che economica – dai genitori. Come si diventa grandi e non “bamboccioni”.
di Barbara Autuori

Generazione di bamboccioni. Era il lontano 2007 quando l’allora ministro dell’economia Tommaso Padoa - Schioppa coniò questo nomignolo, tra il brutale e l’ironico, per indicare quei giovani (spesso ultratrentenni) che ancora abitano con mamma e papà. Figli già adulti eppure non ancora cresciuti, tanti Tanguy incapaci di tagliare il cordone ombelicale che li tiene così strettamente legati alla famiglia. Una mancanza d’autonomia, si disse allora e si ripete oggi, che in molti casi corrisponde a una difficoltà ad emanciparsi economicamente. Ma non sempre è così: a volte è piuttosto il risultato di un processo mancato verso un’indipendenza prima di tutto psicologica ed emotiva.

Conquista dell’indipendenza

Un’evoluzione graduale che dovrebbe avere inizio in tenera età: «Prima dei 2 anni il bambino ha con la mamma un rapporto di dipendenza assoluta che va piano piano trasformandosi in dipendenza relativa per poi sfociare nell’indipendenza», spiega Liliana Cocumelli, psicologa, psicoterapeuta e presidente di Abc-Aiutiamo i Bambini a Crescere (www.associazioneabc.jimdo.com) che opera nella Capitale e provincia –. La conquista dell’autonomia dei più piccoli assomiglia ad una serie di oscillazioni con le quali il figlio inizia a esplorare il mondo, scoprire se corrisponde o meno alla sue aspettative per poi, all’occorrenza, tornare alla base sicura rappresentata dalla famiglia». Piccole tappe che non vanno né frenate né accelerate bensì accompagnate con un atteggiamento insieme rassicurante e incoraggiante da parte di mamma e papà. «Strattonare o trattenere? Il dilemma dei genitori non sempre è facile da risolvere anche perché non esiste un’età prestabilita in cui si deve raggiungere l’autonomia», sottolinea Cocumelli.

In piena autonomia

A giocare un ruolo fondamentale nel processo d’indipendenza dei piccoli di casa, infatti, sono molti fattori: dalla maturazione biologica, elemento molto soggettivo, alla storia dei genitori, per arrivare al contesto culturale nel quale si vive. «La società di oggi – avverte l’esperta – spesso sottopone il bambino a richieste culturali ed educative che nulla hanno a che fare con la sua naturale ricerca d’indipendenza». Con il risultato che l’acquisizione di autonomie necessarie, magari ricercate attraverso forme di creatività tutte personali, va a scapito delle pretese del mondo adulto. Il rischio è di ritrovarsi con figli “ad alte prestazioni” nello studio, nello sport, nella musica e così via, ma incapaci di essere davvero autonomi rispetto ai genitori. E quest’ultimi devono rinunciare, a tempo debito, al ruolo di controllori esterni. Un passo difficile che comporta senz’altro l’accettazione di alcune incognite: rischi indispensabili, tuttavia, per scongiurare di ritrovarsi in casa un bel bamboccione.

Casa dolce casa

Per ragioni economiche e per mentalità. Ecco perché gli under 35 restano in casa di mamma e papà.

Generazioni di italiani che invecchiano tra le mura domestiche. Nell’ultimo report sulle nuove generazioni curato dall’Osservatorio Findomenstic (centro studi della società del gruppo Bnp Paribas), rispetto al 2007 la percentuale di under 35 che dichiarava di vivere nella casa natale (i “bamboccioni” di Padoa Schioppa) è passata dal 61 al 66 per cento nel 2014. Ciò che spinge a rimanere a casa di mamma e papà è ancora la difficoltà di raggiungere l’autonomia economica, anche se un ruolo determinante lo gioca l’atteggiamento culturale: dei 519 intervistati (il 59 per cento dei quali uomini), di età compresa tra i 18 e i 64 anni, il 75 per cento ritiene che quando si va a vivere da soli “sia giusto che i genitori aiutino i figli”. Un sostegno considerato indispensabile per l’acquisto dell’abitazione o il saldo dell’affitto, ma anche per il pagamento delle bollette, nonché per il contributo che i nonni possono dare nella gestione dei bambini.