Quest’anno il Nobel dell’economia è andato a due studiosi come Oliver Hart e Bengt Holmström, che hanno studiato e criticato il meccanismo distorto delle retribuzioni attribuite ai manager di società quotate. L’anno scorso fu vinto dallo scozzese August Deaton per le sue analisi sui consumi, la povertà e il welfare. Nel 2014 venne premiato il francese Jean Tirole per i suoi studi sul potere del mercato e le regolamentazioni dell’economia. L’elenco potrebbe continuare a lungo, fino ad arrivare ad Elinor Ostrom e Oliver Williamson, Nobel 2009 per le analisi sul bene collettivo (potremmo dire anche “bene comune”) e sui limiti delle imprese. Infine, come non citare Paul Krugman, che dal 2008, quando il Nobel lo rese famoso al grande pubblico, non fa che fustigare le scelte politiche ed economiche all’origine dell’attuale crisi e le assurde medicine a base di austerità e rigore imposte dall’Europa.
Ancora una volta, dunque, dalle severe stanze della Reale Accademia svedese giunge un segnale che non andrebbe sottovalutato: si continuano a premiare economisti che si pongono esattamente agli antipodi del pensiero neoliberale dominante al quale dobbiamo i peggiori disastri di questi anni, tra cui appunto bonus e premi legati alle performance di breve periodo e all’andamento delle quotazioni azionarie elargiti ai supermanager. Gli studi di Hart e Holmström sono d’importanza fondamentale per il buon funzionamento di un’impresa di capitali dove non sempre si è sicuri che l’Agente (il manager) faccia gli interessi del Mandante (il proprietario).
Di esempi in tal senso sono piene le cronache. Basta ricordare i disastri finanziari che hanno messo in ginocchio alcuni importanti istituti di credito nazionali mentre i manager che li avrebbero dovuti amministrare al meglio se ne sono andati con le tasche piene di soldi. È questo il problema che Hart e Holmström, con la loro “teoria dei contratti”, hanno cercato di risolvere. In particolare hanno elaborato il “principio d’informativa”, in base al quale un contratto tra un soggetto privato (per esempio, l’azionista di una società) e il suo rappresentante, per essere davvero efficiente (ed evitare guai di proporzioni immani) dovrebbe collegare lo stipendio del supermanager a specifiche serie di dati rilevanti per valutare attentamente risultati, rischi e incentivi. Anche se non sembra, si tratta di un grosso contributo verso un impiego più efficiente delle risorse e una società più equa e trasparente, nonché una garanzia per chi investe, risparmia o, semplicemente, usufruisce di un servizio.
Peccato che, dimenticati i recenti tracolli, i banchieri e i finanzieri di Wall Street sono tornati a fare (e a farsi pagare) esattamente come prima.