Primi a tavola

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Il vero elisir di lunga vita? La dieta mediterranea che fa degli italiani i primi in classifica – quella stilata dalla prestigiosa agenzia americana Bloomberg – per la salute: si vive di più e meglio. Davvero un buon motivo per continuare a seguire un modello alimentare che non è solo una lista di alimenti, ma anche cultura, tradizione agricola, convivialità, equilibrio tra uomo e natura. Un corretto stile di vita che comincia dal piatto.
di Dario Guidi

Gli italiani sono i primi al mondo per salute. Lo dice una classifica su 163 paesi, costruita tenendo conto di diversi indicatori legati alla durata media della vita, alla nutrizione, alla salute mentale e ad altri fattori di rischio (pressione arteriosa, tabagismo ecc.). Il nostro punteggio è di 93,11 su 100, davanti a Islanda, Svizzera, Singapore, Australia, Spagna e via via tutti gli altri (per dire la Germania è 16°, la Gran Bretagna 23°, gli Stati Uniti 34°). Per noi abitanti del Belpaese, stanchi e depressi dopo anni di crisi economica, abituati a classifiche in cui siamo sempre nelle retrovie, con una situazione politica precaria e una coesione sociale che mostra crepe sempre più evidenti, il riconoscimento arrivato a metà marzo da una prestigiosa agenzia come l’americana Bloomberg, che ha stilato la sua graduatoria 2017 (sulla base di dati dell’Organizzazione mondiale della sanità, delle Banca mondiale e dell’Onu), avrebbe meritato forse più attenzione, anche solo per tirarci un po’ su il morale.

Tutta salute
E per convincerci che molti paesi, sicuramente più ricchi e meglio organizzati di noi, sarebbero pronti a fare uno scambio di ruoli di fronte alla certificazione che qui si vive meglio, più in salute e più a lungo. Una delle chiavi del successo italiano nella classifica di Bloomberg è l’alimentazione, ovvero la dieta mediterranea, straordinaria eredità di cui siamo titolari (con altri paesi), al punto da essere stata dichiarata Patrimonio culturale immateriale dell’umanità dall’Unesco nel novembre 2010. E dato che spesso su questa rivista ci occupiamo di cibo, di alimentazione e di salute, proprio alla dieta mediterranea dedichiamo un approfondimento. Innanzitutto è bene ribadire che la dieta mediterranea non è solo una lista di alimenti, ma si riferisce a cultura, a pratiche sociali, a un’idea di convivialità e a tradizioni agricole in una logica di equilibrio tra uomo e natura che ne fanno uno dei modelli alimentari più salutari e sostenibili.
Ma altrettanto importante è pure uscire da visioni stereotipate, e fuorvianti, di questa dieta che la riducono a un enorme piatto di pasta col pomodoro. «Per prima cosa – spiega il dottor Andrea Ghiselli, dirigente di ricerca Crea, il Centro pubblico di ricerca per gli alimenti e la nutrizione, ente deputato a stilare le linee guida per una sana alimentazione italiana – è bene dire che la dieta mediterranea non è quella di alcune immagini ricche di calorie che vediamo su certe riviste». Da questo punto di vista è interessante ricordare che il termine dieta mediterranea venne coniato negli anni Cinquanta dal biologo e fisiologo statunitense, Ancel Keys.
«Keys – spiega ancora Ghiselli –, vedendo che la mortalità per problemi cardiovascolari era molto più alta negli Usa che in altri paesi, arrivò a capire che questa differenza derivava da una dieta con una minore quantità di grassi saturi e quindi, per quei tempi, di prodotti animali terrestri. Le cose andavano meglio per chi privilegiava il pesce. Questa era la chiave per vivere più a lungo. Tra i paesi dove le cose funzionavano bene c’erano l’Italia, la Grecia e la ex Yugoslavia, ma anche il Giappone, molto lontano dal mare nostrum. Dico questo – precisa Ghiselli – per ricordare che la nostra la pasta non è meglio del riso o i nostri cavoli diversi da quelli cinesi».

Il piatto ride
Dunque la dieta mediterranea non deve essere considerata un menu fatto di prodotti che crescono in area mediterranea, ma un modello che ogni paese, anche lontano dal Mediterraneo può costruire con i suoi alimenti. «Anche perché il pomodoro, ad esempio, che oggi è uno dei simboli alimentari delle nostre zone, fino a molto tempo dopo la scoperta dell’America qui non era presente», ricorda Ghiselli. Dunque il successo della dieta mediterranea, oltre che nella buona capacità di marketing e di affermare il marchio che gli italiani hanno avuto attualità per primi, sta in un’idea di alimentazione spesso tradotta nella piramide alimentare. Una piramide che vede alla base i cibi di cui abbiamo bisogno in ogni pasto – verdura, frutta, pasta, riso e altri cereali –, e poi salendo incrocia altri prodotti di cui dobbiamo graduare la presenza: da latte e formaggi (porzioni quotidiane) fino a carni, salumi e dolci (di cui abbiamo bisogno due o tre volte alla settimana). «In sostanza ciò che caratterizza le popolazioni che vivono a lungo – riprende Ghiselli – è una dieta con tanti vegetali e con la presenza di prodotti di origine animale solo per compensare i punti deboli dei vegetali. Questo non vuol dire che gli alimenti di provenienza vegetale siano migliori di quelli animali: zucchero o alcol sono di provenienza vegetale, ma il loro consumo non deve essere certamente raccomandato, mentre tra i prodotti di origine animale ci sono pesce, carni bianche e latticini, il cui consumo non è certo dannoso per la salute, ovviamente nelle quantità corrette».

“La Dieta Mediterranea è molto più che un semplice alimento. Essa promuove l’interazione sociale, poiché il pasto in comune è alla base dei costumi sociali e delle festività condivise da una data comunità, e ha dato luogo a un notevole corpus di conoscenze, canzoni, massime, racconti e leggende. La Dieta si fonda sul rispetto per il territorio e la biodiversità, e garantisce la conservazione e lo sviluppo delle attività tradizionali e dei mestieri collegati alla pesca e all’agricoltura nelle comunità del Mediterraneo”.

È con queste motivazioni che, nel novembre 2010, la dieta mediterranea è stata riconosciuta dall’Unesco Patrimonio culturale immateriale dell’umanità.

Giro di tavolo
Ma del patrimonio di indicazioni e conoscenze che compongono l’insieme della dieta mediterranea, nell’evoluzione degli ultimi mesi, con un’attenzione sempre crescente, ad esempio, per i cibi “senza” (senza glutine, senza lattosio, senza grassi ecc.) ci stiamo muovendo sulla strada giusta? «Se si guarda all’evoluzione nell’arco dei decenni e non di pochi mesi – prosegue Ghiselli – i dati dicono che, grazie all’aumento dell’offerta di prodotti e a un benessere più diffuso, la nostra alimentazione ha troppe calorie ed è eccessiva. Poi certo, nelle pieghe degli atteggiamenti più recenti ci sono mode e paure. Quasi il 50% degli italiani ha intolleranza al lattosio, ma i documenti di consenso (uno, per esempio, dell’Efsa) spiegano che anche gli intolleranti sopportano senza problemi 12 grammi di latte al giorno, che sono la tazza che possiamo bere al mattino – precisa l’esperto –. Sui cereali, se è vero che è meglio scegliere quelli integrali e consumare più fibre, va detto che i cibi senza glutine dovrebbe consumarli solo chi è veramente celiaco o sensibile al glutine, perché contengono spesso più grassi e addensanti e hanno un indice glicemico superiore». Dunque, tornando al punto di partenza e alla classifica che dice che siamo il popolo più in salute del pianeta, possiamo usare questa notizia per mostrarci riconoscenti verso la dieta mediterranea, continuando a utilizzarla e frequentarla nella nostre scelte quotidiane. Anche più di quanto non avvenga oggi. Perché, se è vero che sulla longevità italica non si discute, siamo ancora al di sotto del minimo di consumo quotidiano di frutta e ortaggi indicato dall’Organizzazione mondiale della sanità (500 grammi contro poco più di 300) e lo stesso vale per i cereali integrali. Spazio per migliorare ce n’è ancora parecchio.

Buon appetito!
Una dieta buona, conveniente, rispettosa dell’ambiente. 

Tanta frutta e verdura, tanti cereali meglio se integrali, una quantità ragionata di carne, pesce e uova, con lo sfizio di qualche dolce, ma senza eccessi. Nei dati forniti dall’ultimo Rapporto Coop su consumi e distribuzione (disponibili sul sito www.italiani.coop) si scopre che la produzione degli alimenti che caratterizzano questa dieta emette una quantità minore di anidride carbonica, oltre a consumare meno acqua e suolo rispetto ad altri modelli troppo ricchi di carne. Al minore impatto ambientale si unisce anche il fatto che questa dieta risulta più conveniente

Stop al semaforo
Che cosa sono le etichette a semaforo e perché non tutelano i prodotti di qualità del made in Italy e la nostra salute

Nessuno dice o dirà che è contro la dieta mediterranea e le produzioni nostrane, ma c’è un sorta di cavallo di Troia, di cui si propone l’utilizzo, che potrebbe creare tanti problemi. Si tratta delle proposta di introdurre per gli alimenti la cosiddetta etichetta a semaforo. Già adottata in Inghilterra, ora qualcuno vorrebbe estenderla a tutta l’Unione europea: a seconda del grado di problematicità di un alimento, l’etichetta è rossa (da ridurre al minimo, se non da evitare), arancione (si può consumare senza eccedere) o verde (da consumare senza problemi). A decidere il colore dell’etichetta è la presenza di grassi saturi, zuccheri e sale per 100 grammi di prodotto.

Occhio all’etichetta!
Un sistema spicciolo che non fa distinzione tra prodotti di alta e di bassa qualità; il che significa che a rischiare di trovarsi l’etichetta rossa, al pari di un qualsiasi cibo spazzatura industriale, siano gioielli del made in Italy come il Parmigiano Reggiano, l’olio d’oliva e il prosciutto di Parma. Se il Governo e l’intero mondo dell’industria alimentare italiana – e anche Coop – sono subito scesi in campo contro quest’ipotesi, con grande sorpresa di Stop al semaforo Che cosa sono le etichette a semaforo e perché non tutelano i prodotti di qualità del made in Italy e la nostra salute. molti a schierarsi congiuntamente a favore dell’etichetta a semaforo sono state sei multinazionali come Nestlé, Mars, Unilever, Mondelez, Coca Cola e Pepsi Cola, le regine nella produzione di cibi e bevande mediamente non proprio vicine a una dieta equilibrata e salutare. Come mai? C’è chi ha ipotizzato che la considerino il male minore, cioè per evitare che vengano introdotte misure come una maggiore tassazione sui prodotti con troppi zuccheri (le cosiddette soda tax o sugar tax), ritenuti causa di quell’aumento di obesità che le autorità europee vogliono contrastare, dato che da ciò derivano enormi costi sanitari. Il dibattito sarà sicuramente serrato e resta da vedere quale orientamento prevarrà. Se i singoli paesi saranno comunque liberi di decidere è scontato che l’Italia opterà per il no. Il rischio sarà per i nostri prodotti destinati all’estero che rischiano di trovarsi penalizzati laddove la nuova etichetta sarà adottata. Un problema che andrebbe ad aggiungersi alla guerra dei dazi commerciali scatenata dal presidente americano Trump.

Oltre al danno la beffa
«Quest’etichetta a semaforo – afferma Andrea Ghiselli, dirigente del Crea – è sbagliata per più motivi. In primo luogo si tratta di una metodologia che toglie al consumatore la responsabilità delle sue scelte e che appiattisce tutti i prodotti, limitandosi a misurare solo le quantità di zuccheri e grassi. Il consumatore deve, invece, imparare a mangiare correttamente e aumentare la sua consapevolezza. Perché solo lui sa che cosa ha mangiato e che cosa mangerà in quella giornata. E i problemi non sono nel singolo prodotto o ingrediente, ma nella somma di ciò che mangiamo». In più Ghiselli fa un esempio molto illuminante: «Prendiamo le bevande zuccherate: il limite attuale è di 6,2 grammi per 100 millilitri, oltre scatta il semaforo rosso. Ebbene, nella produzione industriale posso programmare e ottenere una bevanda che si ferma a 6,2. Così il consumatore consumerà abbastanza tranquillamente una bevanda che contiene 6,2 grammi di zucchero, ma starà ben attento a consumarne una che ne contenga 6,3. E lo stesso con i grassi: staremo attenti a un formaggio che contenga 20 grammi di grassi su cento, ma mangeremo con più tranquillità un formaggio che ne contenga 19,5. Poiché i colori sono stabiliti non per porzione, ma per grammi, il nostro olio è decisamente rosso. Sarà verde per lo zucchero, verde per il sale, ma due bei bollini rossi, uno per i grassi e uno per i saturi sono assicurati. Nessuno consuma, però, 100 grammi d’olio – precisa Ghiselli –: una porzione d’olio è 10 grammi e dovremmo consumarne 30 in tutta la giornata. Così poi magari uno usa per condire qualche preparato artificiale in bustina costruito sapientemente sotti i limiti del “semaforo” e penserà di far bene alla salute... Sarebbe davvero una beffa».
Vale la pena ricordare come Lisa Ferrarini, vicepresidente di Confindustria, abbia attaccato duramente sul tema, definendo «paradossale che sei multinazionali, che non rappresentano l’industria europea né tantomeno quella italiana, tentino di imporre in Europa un sistema talmente grossolano da penalizzare le produzioni leader nella qualità mondiale come quelle italiane». Dal canto suo il ministro delle politiche agricole alimentari e forestali Maurizio Martina ha chiesto a Bruxelles di «impedirne la diffusione perché provocherebbe danni economici e d’immagine ai nostri prodotti, senza portare alcun beneficio per i consumatori e senza promuovere uno stile alimentare equilibrato, ma classificando invece i cibi con parametri discutibili e approssimativi».

Il parere di Coop
No alle etichette a semaforo.

Renata Pascarelli, direttore qualità di Coop Italia, spiega perché. «Coop è decisamente contraria all’introduzione dell’etichetta a semaforo come quella adottata in Inghilterra. Si tratta di una scelta che non va nella giusta direzione perché nessun cibo deve essere demonizzato con un sistema che rischia di creare distorsioni e penalizzazioni non giustificate. L’obiettivo di contrastare l’aumento dell’obesità e delle patologie che da questa derivano è condivisibile, ma va perseguito informando e rendendo più consapevole il consumatore. Coop è impegnata da anni a promuovere una dieta equilibrata, varia e che preveda un apporto dei diversi nutrienti in quantità corrette, con prodotti adeguatamente formulati. La strada deve essere quella della piena trasparenza e della corretta informazione, iniziando dall’attività nelle scuole in cui Coop è da moltissimi anni protagonista». 

Perdita dell’orientamento
Com’è cambiato il rapporto degli italiani con la dieta mediterranea.

Ne parliamo con Carla Collicelli, sociologa del welfare e della salute, già vice direttore generale del Censis e autrice del saggio Stili di vita e culture del bere in Italia.

Oggi che rapporto c’è tra gli italiani e la dieta mediterranea?
«Un rapporto che definirei ambiguo. Da un lato la dieta mediterranea è in qualche modo connaturata al nostro stile di vita e molto legata alle nostre tradizioni; dall’altro si trova a competere con influenze e contrappesi di vario tipo: la nouvelle cuisine e la cucina fusion, la moda del pasto fuori casa e l’offerta molto estesa di cibi non sempre sani, le mode alimentari diffuse dalla cosiddetta medicina alternativa e altro ancora. Un quadro di riferimento confuso e complesso che disorienta molte persone, anche se affezionate alla dieta mediterranea».

Le giovani generazioni sono consapevoli del valore del nostro modello alimentare?
«Proprio i giovani sono l’emblema di questa forma sottile di disorientamento della modernità, influenzati da tanti stimoli. Le ricerche sociologiche sul tema mostrano negli ultimi anni la crescita diffusa, anche tra i giovani, dell’informazione e della consapevolezza, ma anche quella dell’incoerenza tra convinzioni e comportamenti. Basti pensare al fumo e all’uso di alcolici nelle occasioni sociali con i coetanei».

Si parla tanto di “piramide alimentare”. Ma forse la dieta mediterranea è qualcosa di più.
«La piramide alimentare è una bella rappresentazione grafica delle caratteristiche degli alimenti e del loro impatto sulla nostra salute. Ma sicuramente non basta. Un aspetto spesso trascurato è quello delle quantità: bisognerebbe fare molta più attenzione alle dimensioni delle porzioni, che dovrebbero essere limitate, soprattutto per chi non fa attività fisica o ne fa poca. Un altro aspetto importante, a volte trascurato, è quello della varietà: non vi è alimento che accanto alle proprietà nutrizionali non contenga anche dei rischi o delle sostanze nocive. Occorre dunque mangiare un po’ di tutto e variare il più possibile la dieta. E avere un corretto stile di vita».

Le tendenze alimentari odierne (cibi “senza”, integratori, veganesimo ecc.) allontanano o no da questo modello?
«Il veganesimo, e anche il vegetarianesimo, per limitarci a questi, hanno molto a che fare con l’esigenza etica del rispetto delle specie animali, seppure per molti si tratta anche di una condanna della carne e dei prodotti animali come tossici per l’organismo umano. Hanno a che fare anche con i principi di uno sviluppo sostenibile, che prevede di nuovo il rispetto degli animali e della natura in generale, e anche la lotta alle coltivazioni e agli allevamenti intensivi. Per molti aspetti queste tendenze si sposano bene con i principi della dieta mediterranea, ricca di vegetali e cereali, e più moderata con le carni. Gli eccessi, anche in questo caso, sono spesso pericolosi per la salute, e i messaggi pubblicitari diffusi su questo argomento contribuiscono a rendere il quadro confuso».