Retro...gusto

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Per l’arte, la musica, la letteratura, il cibo. Il gusto, che ci fa apprezzare il bello e il buono, che si forma con la conoscenza.
di Massimo Montanari

C’è una parola che usiamo spesso: gusto, parlando di cose diversissime fra loro. Basta scorrere il programma dell’evento Mens-a, dedicato quest’anno al “gusto delle arti e dei saperi”, per scoprire in quanti modi si può declinare la magica parola: il gusto dell’arte, della letteratura, del teatro, della musica, della filosofia, della scrittura, della narrazione, e poi il gusto della festa, dell’ospitalità e perfino della misericordia. Non senza passare attraverso il gusto del cibo e della gastronomia. Perché sempre quella parola? Perché proprio quel senso e non il tatto o la vista? Perché – ecco la risposta – gli uomini hanno sempre assegnato al gusto uno straordinario valore conoscitivo. Beninteso, tutti i sensi servono a conoscere ma, come spiegavano i filosofi medievali, esistono vari gradi di conoscenza. Con la vista e il tatto, l’udito e l’olfatto percepiamo la realtà in modo indiretto, più o meno mediato.

Il gusto, invece, tramite l’incorporazione dell’oggetto, ci consente di conoscerlo nel miglior modo possibile: mai perfetto, mai completo, perché la vera conoscenza non è di questo mondo; tuttavia, al meglio delle nostre possibilità. “Solo il gusto – leggiamo in un anonimo trattato sui sensi del XIII secolo – è propriamente e principalmente destinato a indagare la natura delle cose”. Non è forse questo il modo con cui i neonati apprendono che esiste qualcosa al di fuori di loro? La conoscenza passa di lì, dall’assaggio del mondo. Dal gusto.

Ecco perché i termini “sapore” e “sapere” hanno la stessa radice. Ecco perché fu il gusto, tra i sensi, a essere preferito per rappresentare la conoscenza anche sul piano intellettuale. Ecco perché si cominciò a chiamare gusto la capacità di apprezzare il buono oltre che il bello; l’arte, la musica, la letteratura oltre che il cibo. In questo ampliamento metaforico del concetto e della parola, soprattutto in età moderna, qualcosa cambia. Se i filosofi medievali potevano ammettere che «sui gusti non si discute », perché pensavano soprattutto al gusto individuale, alla percezione e alla valutazione soggettiva (e in quanto tale non discutibile) del cibo e dei sapori, l’idea moderna di gusto (anzi “buongusto”, come si cominciò a dire dopo il Rinascimento) si riferisce piuttosto a una realtà culturale, a un’esperienza non innata ma appresa, a una conoscenza che si può imparare e insegnare, dunque meno soggettiva, poiché la si può confrontare, condividere, contestare. In questo senso, sui gusti si discute, eccome. Il rapporto fra i due termini pare quasi rovesciato: non è più il gusto a produrre conoscenza, ma la conoscenza a produrre gusto. Le due nozioni, però, viaggiano sempre parallele.