Scuse accettate

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Imperativo etico, comandamento evangelico, strategia dell’evoluzione della specie che mi fa stare meglio, nel corpo e nell’anima, rispetto all’idea fissa del torto subito e dei propositi di vendetta. Il perdono, secondo neuroscienziati, filosofi, psicologi e sociologi, toccasana per chi lo concede e per chi lo chiede, ma anche per la società. Purché sia autentico e non solo a Natale.
di Rita Nannelli

La miglior vendetta è il perdono. Uno dei primi consigli della mamma, quando torni da scuola imbronciato perché il più pestifero della classe ti ha fregato la merenda e scarabocchiato il diario, è considerato dagli esperti una delle migliori medicine per guarire le ferite e guardare avanti senza rancore. Ma di fronte a un amore tradito, un’amicizia offesa, al torto di un familiare, di un vicino di casa o di un collega porgere l’altra guancia e dimostrarsi indulgente è meno facile e istintivo che giurare vendetta e sfogare la rabbia. Anzi la tentazione di rispondere al male col male, all’offesa con l’offesa, è il più comune dei comportamenti, umano, ma forse troppo umano. Perché secondo alcune ricerche scientifiche perdonare ci fa stare meglio del continuo rimuginare sull’ingiustizia subita e dei propositi di rivalsa. “Serbare rancore equivale a prendere un veleno e sperare che a morire sia l’altro”, avvertiva in modo geniale Shakespeare cogliendo il controsenso della vendetta.

Pardon!

Trasformo le difficoltà in risorse, entro in sintonia con l’altro, cambio angolo visuale superando il conflitto. È quello che succede nel cervello quando decido di perdonare un’offesa, secondo uno dei più recenti studi di neuroscienze di un gruppo di ricercatori dell’Università di Pisa. In sintesi si tratta di un processo per niente banale (che coinvolge diverse aree cerebrali) di rivisitazione dell’esperienza che assume una coloritura emotiva positiva da negativa qual era. Ma un conto è scegliere la strada della comprensione in uno studio clinico, come i volontari dell’esperimento (a cui era stato chiesto di immaginare varie scene nelle quali subivano un torto e poi, sempre con l’immaginazione, di perdonare oppure di dare fuoco al risentimento), un conto è la vita reale che ci offre sempre un coltello da girarsi nella piaga. «Il perdono corrisponde all’abilità presente in ognuno di noi di trasformare le cose belle e brutte che accadono in un dono. E da un dolore profondo può nascere un dono: in questo modo ci si libera dalla sofferenza che quel dolore porta con sé», risponde Daniel Lumera, direttore della Fondazione My Life Design e ideatore del progetto International School of Forgiveness, formatore e docente specializzato in sociologia della comunicazione e dei processi culturali

Senza rancore

Un legame tra perdono e benessere che mette d’accordo psicologi, scienziati, filosofi e sociologi. «Le persone capaci di perdonare sono selettivamente più adatte alla sopravvivenza della specie. È, infatti, comprovato scientificamente che si ammalano meno e hanno una qualità della vita superiore sotto il profilo personale, delle relazioni e sociale. Il perdono ha un impatto profondo sul sistema circolatorio e su quello immunitario, sulle aree cerebrali dell’empatia, dello sviluppo del cambio di prospettiva, sull’area preposta a far percepire i problemi come opportunità. Si può dunque dire che il perdono cura il corpo», spiega Lumera, autore del libro La cura del perdono. Che sia strategia dell’evoluzione, un comandamento evangelico, un imperativo morale o tutti e tre, concedere venia conviene perché sposta la qualità delle emozioni dal rancore (che non rimanda a niente di buono: in latino rancor deriva da rancere “essere rancido, guasto, andato a male”) alla gratitudine. «Si potrebbe dire che è una sorta di integratore alimentare della dieta delle emozioni, capace di sviluppare un senso profondo di liberazione e la consapevolezza che la propria felicità dipende da quella degli altri», puntualizza Lumera. Gli fa eco Mimmo Petullà, sociologo, antropologo ed epistemologo delle religioni: « La scelta del perdono, rispetto al sentimento di vendetta, si rivela come un progressivo percorso di terapeutica liberazione che, impedendo all’esperienza offensiva d’inchiodarci al passato, schiude inedite e feconde vie d’uscita, non solo per l’oggi, ma anche per il futuro».

Mi perdono

A ben guardare un gesto di sano egoismo per andare avanti e rimettere in moto la propria vita, che altrimenti resta inceppata. Ma appurato e dimostrato che fa bene ad anima e corpo, come si può imparare a perdonare e non solo a Natale quando siamo già tutti più buoni? «Anziché fare un vademecum del perdono riflettiamo innanzitutto su questo punto – afferma Giovanna Carlo, psicoterapeuta e didatta Arpa (Associazione per la ricerca in psicologia analitica) –: per perdonare sul serio bisogna fare una distinzione tra la censura e l’imbavagliamento del disagio che si prova per un torto subito e il vero perdono che lenisce le ferite della memoria, che significa riconoscere l’accaduto e guardare avanti con una nuova prospettiva, accettando il fatto che, come noi, anche gli altri hanno le loro zone d’ombra. Ma ciò che conta davvero – aggiunge la psicoterapeuta – è perdonare sé stessi. Se non possiamo accettarci, facendo i conti con quello che siamo veramente, non possiamo perdonare gli altri. Intendo perdonarsi rispetto a obiettivi o mete personali non raggiunte, rispetto ad ambizioni non realizzate, frutto magari di aspettative troppo alte, di un’educazione troppo rigida o di una religione dai principi punitivi. Bisogna smetterla insomma di essere arrabbiati con sé stessi».

Ricerca interiore

Quindi perché faccia stare meglio davvero chi lo concede e chi lo riceve, dev’essere un perdono vero. «Mi fa stare bene il perdono ricevuto, perché ripristina la relazione con chi ho offeso, ma io devo essere consapevole del male che gli ho fatto – sottolinea Adriano Fabris, docente di filosofia morale all’Università di Pisa –. Mi fa stare meglio il perdono che riesco a dare, perché mi libera dall’idea fissa del torto subito e mi svincola dal peso del passato, ma colui che perdono questo perdono se lo deve meritare». Un percorso lento di presa di coscienza che ha bisogno di tempo e «di interiorizzazione delle esperienze – aggiunge Carlo – che la società attuale, superficiale, sbrigativa e buonista, non aiuta a compiere. La tendenza è a dimenticare, non a perdonare davvero, e questo non fa altro che aumentare un sordo risentimento. Inoltre, perché il perdono si attui realmente, serve da parte di chi ha ferito un’assunzione di responsabilità che richiede anch’essa tempo, ricerca in sé stessi, fatica». Allora, se il perdono non è una scelta improvvisata o un impeto di benevolenza, nella società contemporanea non sembra molto forte e diffusa l’attitudine a quello autentico.

V per vendetta

«Forse si odia di più che in passato – è il parere di Lumera –. Oggi, a causa soprattutto dei social network, l’inconscio personale si riversa continuamente in quello collettivo, con il risultato che i sentimenti di odio che si coltivano ogni giorno hanno una diffusione e una manifestazione senza filtri. La società attuale è basata sulla competizione a tutti i livelli e in questo contesto la misericordia e la comprensione sono viste come una debolezza. Comunque accanto a tutto questo abbiamo moltissimi grandi esempi di perdono – nota Lumera -: Nelson Mandela su tutti. Dopo decenni di prigione si era assunto la responsabilità di perdonare i suoi aguzzini e chiamarli a governare insieme, liberando così le coscienze di un intero paese. C’è poi l’esempio del Ruanda che, dopo il massacro del 1994, ha utilizzato il perdono come strumento di stato per pacificare il paese (esistono anche delle giornate obbligatorie del perdono...). Così, il perdono, come elemento di reciprocità che non esclude – e dall’esclusione nascono tante forme di violenza – può rappresentare la chiave di volta non solo per una trasformazione personale, ma anche sociale e collettiva».

C’è rimedio

Non coltivare il dolore in attesa che la vendetta si compia, ma svincolarsi dal male, cercando un buon motivo per porvi rimedio. Viene da domandarsi se per i popoli sia come per le singole persone: ad alcuni viene più facile che ad altri. «Vari studi hanno evidenziato che le culture di appartenenza influenzano in modo significativo l’attitudine o meno al perdono. Non è un caso che nei paesi dove le dinamiche relazionali risultano più forti e centrali di quelle individualistiche, come per esempio in quelli latinoamericani, perdonare è una pratica sociale piuttosto diffusa. In più, sebbene l’ispirazione scaturita dall’esperienza religiosa non appaia essenziale nel decidersi per il perdono, bisogna riconoscere che essa offre potenti metafore e narrazioni capaci di dotare di senso, dunque di incoraggiare, questa propensione», ritiene Petullà, autore del libro Dalla vendetta al perdono. Un’analisi per liberare se stessi e l’altro (Rubbettino editore, 2015), che allarga così l’orizzonte della riflessione: «Il perdono non è un’invenzione moderna; anzi ha origine con le civiltà più antiche. Oggi, però, potrebbe rivelarsi come un efficace strumento per la risoluzione dei conflitti e il ristabilimento delle condizioni di pace anche a livello internazionale». In fondo qual è il senso del perdono se non dare un’apertura di credito, ancora una volta, malgrado tutto, a una persona e al mondo?