A star is born

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9 Luglio 2019
Il gusto e la memoria, la ragione e la fantasia. Questioni sul piatto dello chef stellato Marco Miglioli.

Articolo pubblicato su NuovoConsumo del mese di luglio 2019

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di Rita Nannelli

Stile sbrigliato, quasi da rapper. Del sussiego di tanti suoi colleghi neanche l’ombra. A venirci incontro dalla sua cucina è lo chef trentatreenne Marco Miglioli, che sta ancora lucidando la sua prima stella Michelin. Se l’è fatta tatuare in fondo al polpaccio mentre si sfa in una clessidra, perché sic transit gloria mundi e perché il tempo in cucina è molto importante. «Il tempo è tutto, è coinvolgimento totale, è la vita».

Parola di cuoco, che ha imparato moltissimo dal cuocopersonaggio Antonino Cannavacciuolo nella storica Villa Crespi, a Orta San Giulio sul Lago d’Orta, cominciando come stagista di pasticceria, e da Fabrizio Tesse, che considera il suo maestro. E con lui oggi collabora al ristorante Carignano, come chef de cuisine, nella Torino in cui è nato e da cui è partito poco più che ventenne alla scoperta del mondo... non solo culinario.

Come si diventa un grande chef?
«Bisogna lavorare tanto e viaggiare tanto per conoscere culture e abitudini differenti dalle nostre. Ho vissuto e lavorato in diverse città italiane, in Inghilterra, sulla Costa Azzurra, a Dubai, perché scoprire cose nuove riattiva il cervello. La sperimentazione in cucina è un valore, come in tutto. E questa professione è fatica, chi pensa di farla con qualche corso e via si illude».

L’atto del cucinare: più estro o più ragione?
«Per me è una continua lotta interiore. Comunque direi più estro nella fase di creazione, più metodo nell’esposizione. Se devo scegliere, dico estro, fantasia».

Si dice arte culinaria non a caso.
«Sì, la cucina è un’arte. L’impiattamento, cioè come si presenta una portata, i colori, i profumi che un piatto emana, la disposizione geometrica e lineare degli ingredienti, la cura dei dettagli, l’abbinamento dei gusti. È un gesto estetico».

Hai citato il gusto: potresti dare una definizione? «Umami, in giapponese, cioè concentrazione, un po’ come il dado, è ricerca di una sintesi armonica. E insieme èmemoria, ricordo che un profumo evoca. Per me è quello dell’agnello con le patate che da bambino cucinava la mia mamma».

Il (buon) gusto è innato o si acquisisce?
«Come dice Cannavacciuolo: «O lo tieni o non lo tieni». Certo, si può educare, ma qualcosa dentro ce lo devi avere, è istinto».

Veniamo alla tavola buona e salutare.
«Accipicchia! Sarebbe figo se ci fosse. Difficilmente ciò che è buono, goloso, saporito fa anche bene».

Tutti pazzi per la cucina: gare, trasmissioni, foto e video sui social ecc. Che cosa pensi di questo fenomeno?
«È un eccesso di esposizione. Oggi si è troppo focalizzati sulla cucina, come se non esistesse altro. Il troppo stroppia. Ma io non ho neanche la Tv…».

Gli italiani più tradizionalisti o sperimentatori ai fornelli?
«Tradizionalisti. Teniamo molto alle nostre usanze a tavola, cuciniamo i piatti noti, ma siamo anche capaci di innovare e creare abbinamenti inediti». 

 

Ora risposte secche su che cosa preferisci: vino rosso o vino bianco, carne o pesce, dolce o salato, colorato o monocolore?
«Rosso, carne, salato, monocolore».

A proposito di creazione: una firmata Miglioli?
«Il tirami-choux, un gioco di parole in cui sta l’essenza di questo dolce: cavolo – chou in francese – con crosta di cacao e dentro il tiramisù, gelato all’anice accanto, sopra crema inglese e caffè».

Ultima domanda d’obbligo: il tuo piatto preferito?
«Un buon hamburger alla griglia. Ma com’è difficile trovarlo fatto bene!».