Storie vere

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28 Febbraio 2017
La testimonianza di chi ha scelto una nuova vita fuori dall'Italia.

Dall’Irlanda a Hong Kong, dalla Cina alla Russia, dall’Australia alla Francia. Eccoli i nostri talenti in giro per il mondo, impegnati in una nuova vita che regala soddisfazioni, sicuramente con la nostalgia dell’Italia, ma con poca voglia di tornare indietro.

Elena Nicchini, antropologa con laurea alla “Bicocca” di Milano, è ora ricercatrice nella prestigiosa Chinese University di Hong Kong. In patria, aveva pensato alla vita accademica, ma si era presto dovuta ricredere. «Nella mia facoltà, gli assegnisti di ricerca erano più di 20, ma per mancanza di risorse, solo uno tra questi avrebbe potuto continuare la vita accademica ». Accantonato il sogno di lavorare all’Università, Elena si butta nell’insegnamento della lingua italiana agli stranieri. Dopo 8 anni di volontariato, riesce a prendere la certificazione per l’insegnamento e a costruirsi un piccolo giro di commesse. «Ma era una vita precaria, guardavo i miei colleghi di 40 anni che per sbarcare il lunario dovevano fare tre lavori diversi e mi chiesi: è questa la vita che voglio fare?». Vince il concorso per l’Università di Hong Kong e decide di partire. «All’inizio ero spaesata, non conoscevo il cinese, ma subito mi proposero di moderare le discussioni tra gli studenti. La vita della facoltà è stressante, però mi sono da subito sentita coinvolta in prima persona. La cosa imbarazzante del nostro paese è che le facoltà italiane nonostante siano inaccessibili, raramente hanno una fama internazionale. A Hong Kong, invece, ti senti subito immersa in un ambiente cosmopolita, dove non esistono gerarchie, conta solo il lavoro».

Daniele Castronovo, siciliano di 33 anni, laurea e master a Parigi in lingua e letteratura francese, con specializzazione in interpretariato. Parla quattro lingue e oggi è manager e responsabile per la qualità del servizio clienti di Lufthansa a Dublino. «Ho provato a tornare in Italia, ma dopo l’ennesimo lavoro di traduzione pagato in modo ridicolo, ho deciso di lasciare il paese. In Italia, di occasioni ce ne sono veramente poche, non c’è scelta, ed è una sensazione diffusa. Basti pensare che su 170 addetti di questa sede, 70 sono italiani. A Dublino, invece, mi sono permesso il lusso di rinunciare a lavori meglio pagati, perché amo quello che faccio. Non è tutto rose e fiori, ma qui ti danno la possibilità di crescere con il tuo lavoro. Ho potuto, ad esempio, frequentare vari corsi di specializzazione, promossi dalla compagnia. Tornare in Italia? Al momento non credo. È triste lo so, ma se dovessi pensare a una meta, ecco forse mi piacerebbe vivere in Francia».

Roberta Zarcone ha 31 anni ed è laureata in ingegneria edile-architettura. In Italia le avevano offerto soltanto impieghi sottopagati e tirocini senza futuro. «Dopo la laurea ho cominciato a seguire alcuni progetti nello studio di un mio professore, senza essere retribuita. Un giorno mi convoca nel suo ufficio e io tra me e me penso: “Forse mi vuole parlare del bando per il dottorato appena uscito”. E invece no: voleva propormi l’ennesimo lavoro gratis e inoltre mi sconsigliò di partecipare al concorso». Dopo la delusione di un tirocinio a 200 euro al mese a Milano e un lavoro precario per una ditta del fotovoltaico, arriva un’occasione inattesa: la possibilità di andare in Francia con una borsa di studio nella scuola di architettura parigina. «Dopo due mesi facevo già lezioni agli studenti. Lì ho capito che quello era il lavoro che volevo fare». Su consiglio del suo professore, si presenta a un concorso della scuola di architettura di Lille. «I candidati erano 60, riuscimmo a passare all’orale in 2. Non pensavo di farcela, lui era francofono e laureato nella migliore scuola di ingegneria della Francia, e invece hanno preso me». Ora Roberta è professoressa associata e non potrebbe essere più felice.
Ma non è l’unica connazionale ad aver fatto questa scelta: «Nel 2009 il ministero francese pubblicò un rapporto sullo stesso concorso a cui ho partecipato io, in cui la giuria si chiedeva della presenza massiccia di italiani, e del perché pur essendo così qualificati non fossero in grado di trovare spazio nel nostro paese», racconta. Tornare in Italia? «Ora che ho conosciuto un nuovo modo di vivere non potrei mai tornare a quello vecchio».

Andata e non ritorno. Perché i piani per riportare a casa i giovani italiani o per attrarre gli stranieri non funzionano?
A partire dal 2001 i vari Governi italiani hanno promosso altisonanti piani per riportare a casa i nomi noti della ricerca italiana all’estero e incoraggiare quelli stranieri a venire in Italia. Tutti segnati da un sostanziale fallimento. Il programma rientro dei cervelli lanciato dal Governo Berlusconi si è rivelato un fiasco clamoroso. All’appello hanno risposto appena 488 scienziati lungo l’arco di 9 anni (61 in media all’anno, contro gli oltre 3mila che lasciano il paese), ma appena 1/4 dei docenti che erano rientrati hanno poi rinnovato il contratto per altri 4 anni. «Ritengo improbabile che qualsiasi programma per il rientro di ricercatori di alto profilo possa avere successo – osserva Maria Carolina Brandi, ricercatrice dell’Irpps-Cnr –.

Il problema è che si parte dal punto sbagliato: volendo continuare a spendere poco sul sistema di Università ed enti di ricerca pubblici in Italia, si cerca di far entrare (o rientrare) in Italia solo ricercatori eccellenti». Nel 2009 è stato promosso un bando destinato ai giovani ricercatori stranieri e italiani per onorare il 100° compleanno di Rita Levi Montalcini. Nel 2010 si è tentata la strada delle agevolazioni fiscali, con imposte sul reddito al 10% per i ricercatori che rientrano, ma anche qui senza risultati apprezzabili. «Molti di questi ricercatori – continua Brandi – hanno all’estero un’ottima posizione e non sono certo propensi a lasciarla per andare a lavorare in un paese dove il sistema accademico è scarsamente finanziato e la ricerca industriale è poca, e quindi c’è una feroce e stressante concorrenza per il finanziamento di progetti di ricerca». Sotto accusa finisce quindi la scarsa propensione dell’Italia a investire nella ricerca (è tra i paesi industrializzati che investono meno), ma anche il sistema accademico che offre ai giovani poche opportunità di farsi spazio. Infatti, secondo i dati dell’Associazione dottori e dottorandi italiani, al 93% delle nuove leve della ricerca non viene data la possibilità di insegnare. Ad avviso della ricercatrice, va ripensata completamente l’organizzazione delle nostre Università a cui bisogna trasferire più risorse. L’Italia spende circa 8 miliardi di euro all’anno per la ricerca pubblica, cioè metà di quanto spende la Francia, 1/3 di quanto spende la Germania, addirittura meno di 1 dodicesimo di quanto investono gli Stati Uniti. «Non è possibile avere solo le eccellenze, senza risolvere il problema del finanziamento di Università ed enti di ricerca e quello di una continuità nelle assunzioni, che assicuri non solo il turnover ma anche l’espansione del sistema accademico. Come diceva spesso il professor Lucio Bianco quando era presidente del Cnr – conclude Brandi –, invece di cercare di far tornare in Italia Premi Nobel, che stanno benissimo dove sono, è meglio investire per tenere in Italia giovani che poi vinceranno il Nobel»

 

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