La grande crisi, ci dicono, è passata, pur nel permanere di condizioni di difficoltà e di grande incertezza. Si dovrebbe quindi poter pensare a prospettive migliori per il prossimo futuro: ma prima, per avere un quadro veritiero, conviene chiedersi quali conseguenze la crisi abbia provocato, chi ne sconti i danni maggiori e se, invece, la stessa crisi non abbia giovato a qualcuno.
Dopo 7 anni di crisi “ufficiale”, dal 2008 al 2014, la distribuzione della ricchezza nel mondo ha subito notevoli variazioni: oggi l’1 per cento della popolazione mondiale detiene il 50 per cento della ricchezza complessiva, mentre ne possedeva il 44 per cento nel 2007, prima dell’inizio della crisi.
Questi dati sono naturalmente controversi, ma ciò che è riconosciuto da tutti è che la forbice della disuguaglianza negli anni della crisi si è allargata, e di molto, a vantaggio di chi già era ricco e si è ritrovato più ricco e a danno di quelli che erano già poveri e dei moltissimi altri che lo sono diventati durante la crisi.
Se oggi 1/5 della popolazione mondiale possiede quasi l’intera ricchezza del pianeta, è difficile aspettarsi un futuro prossimo di tranquillità sociale, tanto meno di pace internazionale, visto che si sa bene in quali aree del mondo si concentri quel quinto che sta bene e in quali altre i 4/5 che fanno la fame.
Nel luglio scorso, parlando all’università cattolica di Quito, in Ecuador, papa Francesco ha condannato “la globalizzazione del paradigma tecnocratico”, in base al quale “ogni acquisto di potenza” è “semplicemente progresso, sicurezza, benessere, come se realtà, bene e verità sbocciassero spontaneamente dal potere della tecnologia e dell’economia”.
E nel discorso ai rappresentanti della società civile ecuadoregna ha aggiunto: “I beni sono destinati a tutti e su di essi grava un’ipoteca sociale” e ha ammonito che occorre sostituire “il concetto di giustizia basato sul principio di compravendita con quello di giustizia sociale”.
Quello del papa è un richiamo etico: ma a vedere come si è usciti dalla recente crisi, con i ricchi più ricchi e i poveri più poveri, non occorre neppure rifarsi all’etica per capire che è una questione di interesse collettivo, di sopravvivenza, la necessità di mutare rotta.
Non la chiamino giustizia sociale, se a qualcuno disturba una terminologia che sembra passata in disuso, la chiamino come vogliono, ma è urgente, è vitale invertire l’orrenda deriva della disuguaglianza. Serve cambiare passo. Noi italiani viviamo in una Repubblica la cui Costituzione sancisce la funzione sociale della proprietà e dell’iniziativa economica.
Nel nostro ambito si dovrebbe ricominciare da qui, ridando senso e verità alla Costituzione repubblicana.