Porte chiuse

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10 Giugno 2016
Il modello di città e convivenza che si nasconde dietro porte e portoni chiusi. In nome della sicurezza.
di Tito Cortese

A volte, camminando per le strade di Roma, dove vivo, o anche di altre città, mi tornano alla mente i versi di una piccola poesia di Sandro Penna, che suonano così: “anche un portone / rifugio per la pioggia era una gioia”. Oggi, nelle nostre città, i portoni sono tutti chiusi. Non solo là, come a Roma, dove sono sparite le portinerie, un tempo presenti ovunque, compresi i caseggiati popolari (ora sono rimaste soltanto nei palazzi dei quartieri di lusso); ma anche in luoghi dove il portinaio era praticamente sconosciuto (ricordo la Venezia della mia infanzia) e tuttavia gran parte dei portoni restavano aperti l’intera giornata, soprattutto quelli delle case meno pretenziose.

I tempi cambiano, e non c’è da stupirsi che oggi i portoni restino chiusi. Le portinerie sono state eliminate perché i costi erano diventati eccessivi per i condòmini della nuova classe di proprietari (una volta si stava in affitto, oggi la grande maggioranza degli italiani abita in case di proprietà). E più in generale, in Italia come altrove, le esigenze della sicurezza hanno finito per prevalere sulle ragioni della convivenza aperta e solidale. Anzi, il portone chiuso sembra non basti più: si diffondono i videocitofoni, le videocamere di sorveglianza, i cancelli a chiusura elettronica controllata, e sulla pulsantiera accanto al portone i nomi degli inquilini sono sempre più spesso sostituiti da tasti numerati per la digitazione di un codice, che resta la sola modalità di accesso; per non parlare dei recinti murati nei quali si trovano i complessi edilizi detti, e a ragione, “più esclusivi”.

Sta bene. Pazienza, mi dico, per chi, sorpreso senza ombrello da un acquazzone improvviso, non trova più aperto “un portone / rifugio per la pioggia”. Poco male, in fondo. Eppure, resta la sensazione che non si tratti soltanto di questo, che non se ne stiano andando solo piccole opportunità come quella del momentaneo riparo da un temporale. E mi vengono alla mente le immagini di città lontane – e degli anni lontani in cui vi sono stato – nelle quali le guardie armate col mitragliatore in pugno avevano sostituito gli imbelli portinai già 2, 3 decenni addietro, e i cartelli su muri di cinta, che parevano fortezze già allora, avvertivano minacciosi “vigilanza armata!”. Città bellissime, come Bogotà in Colombia, o Pretoria in Sudafrica, per citarne solo un paio: e tuttavia città definitivamente perdute per la convivenza civile, quale noi abbiamo conosciuto nella vecchia Europa della seconda metà del Novecento.

È quello il modello di città e di convivenza verso il quale andiamo? Sembra probabile.
A quello porta la cultura dell’esclusione. Chissà se ci sarà di consolazione il poter dire che saremo diventati, tutti, molto esclusivi.