Le immagini chiave che raccontano l’Albania degli ultimi anni sono due: la prima è la nave Vlora che attracca al porto di Bari nell’agosto 1991, da cui lentamente 20mila persone scendono con i vestiti stropicciati e gli occhi speranzosi alla vista della loro El Dorado personale, l’Italia. La seconda, vent’anni dopo, è la miriade di foto di spiagge deserte e mare blu che riviste e siti web pubblicano a corredo della notizia lanciata dai guru dei viaggiatori di tutto il mondo: signore e signori, la destinazione turistica top oggi è l’Albania.
La terra promessa
Tra questi due momenti passa l’evoluzione di un paese balcanico che ai tempi della guerra fredda era talmente comunista da prendere le distanze dalla Russia quando Nikita Chrušcˇëv iniziò a scalfire il mito staliniano. E quando il muro di Berlino era ormai a brandelli moltissimi albanesi trovarono più allettanti le luci dei vari Fantastico e la vacua allegria di Non è la Rai – carpite con le antenne retrattili alzate di nascosto durante il regime di Enver Hoxha – che non i proclami degli intellettuali di Tirana, intenti a costruire la democrazia. L’italiano, tanto, l’avevano imparato da Pippo Baudo e Ambra Angiolini. Nel frattempo, però, l’El Dorado Italia ha perso il suo luccichio insieme a quello dei suoi programmi Tv, e dopo anni passati a timbrare il cartellino nelle fabbriche o a costruire palazzi da Taranto a Brescia, tanti albanesi se ne tornano a casa. Ad aspettarli c’è un paese ancora in via di sviluppo, almeno secondo il Fondo Monetario Internazionale, dove però il turismo cresce insieme al settore energetico e alla rete stradale, anche se quest’ultima mantiene spesso e volentieri il suo caratteristico manto acciottolato. Per questo compriamo le Mercedes, dicono gli autoctoni, non si distruggono dopo poche migliaia di chilometri. È la sciatteria sovietica, bellezza, che traspare nelle strade come anche nelle fabbriche costruite dai cinesi accanto a raffinate moschee. Unita al paesaggio mediterraneo, però, acquista un fascino tutto suo.
Giro in auto
Per visitare l’Albania è consigliato noleggiare un’auto, soprattutto per uscire dalla zona intorno alla capitale e spingersi verso le spiagge del Sud o le Montagne Maledette del Nord, al confine col Montenegro, il cui nome è tutto un programma. Una breccia nell’atmosfera severa e un po’ sinistra che avvolge le montagne la apre l’ospitalità della poca gente che qui vive, contenta di offrire le uova delle proprie galline e il raki fatto in casa ai sempre più numerosi appassionati di trekking. È la regola del Kanun, un codice di leggi scritte e orali che nel resto dell’Albania è puro folclore. Nel Nord, invece, è talmente radicato da essere ancora applicato (raramente, dicono) anche nei suoi aspetti più retrogradi, come quelli che riguardano le faide tra clan e il ruolo della donna, “un otre – parole testuali –, fatta per portare peso”. Qualche donna sceglie quindi di cambiare sesso, senza subire operazioni ma semplicemente tagliandosi i capelli, fasciandosi il seno e prestando giuramento davanti a una dozzina di capi clan: da allora per la comunità sarà un uomo con facoltà di bere grappa, fumare, possedere un’arma ed essere ammessa all’eredità. Una prospettiva molto meno affascinante di quella di Lady Oscar. Si godono di più la vita le donne che vivono in città, dove il rispetto tra diversi ha un suo proprio simbolo nella chiesa di San Nicola, a Kruje, ricostruita col sostegno economico e materiale di fedeli cattolici e musulmani. E anche a Tirana, dove moschee e chiese sorgono fianco a fianco, si tende a vivere e a lasciar vivere, tranne la statua di Hoxha a piazza Skanderbeg, quella no, la folla inferocita la fece abbattere insieme alla caduta del regime. L’uomo scolpito che si vede nel prato della piazza non è l’ex dittatore, ma l’eroe nazionale che nel XV secolo riuscì a respingere l’esercito ottomano per 13 volte. A lui la piazza è intitolata: anche i comunisti erano d’accordo sul fatto che se lo fosse meritato.
Vita dei campi
A Tirana si arriva, ma nella città non si esaurisce il paese: l’imperativo è lasciare la capitale e immergersi nella dimensione rurale del territorio albanese, intesa non solo come vita di campagna ma come un ritmo di vita a misura d’uomo. Rispetto ad altri paesi dove questo esiste, l’Albania ha un innegabile vantaggio: ci dà un’idea di come si sentano gli anglofoni a girare per il mondo senza fare grandi sforzi per comunicare. Si visitano i siti Unesco Berat, sede dell’enorme fortezza di Rozafa, Argirocastro, città medievale del periodo ottomano, e Butrinto con le rovine del tempo degli Illiri, i progenitori degli albanesi, un po’ pirati e un po’ mercenari. Si mangiano grigliate di carne di animali allevati all’aperto e macellati il giorno prima, uova di galline che la gente chiama per nome e formaggio di capre anch’esse locali, senza che il chilometro zero sia pubblicizzato come un illuminato ritorno alle origini. Qui nessuno si è mai discostato, dalle origini. E naturalmente si va al mare, anche se è quasi autunno, nelle spiagge che si affacciano lungo la Llogara Pass, la panoramica che sale oltre mille metri sulla riviera, dove il vento ha piegato gli alberi ma non gli asini che trasportano abitualmente cose e persone. Palasa o Dhërmi, Ksamil o Bunec: qualcuna è nascosta tra le rocce, qualcuna è più accessibile, da alcune si vede la Puglia, da altre Corfù. Inutile elencarne le differenze: sono tutte spartane, bianche e bellissime.