C'è moda e moda

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Un conto è essere omologati nelle abitudini e nel look da giovani, un conto è esserlo nel pensiero da adulti.
di Tito Cortese

Vicino a casa mia è stato aperto da poco un ristorante giapponese. Quando ci passo davanti vedo spesso una fila di ragazze e ragazzi in attesa: sono perlopiù giovanissimi, tutti vestiti più o meno allo stesso modo. Si capisce che amano sentirsi uguali, nel vestire, nel parlare, nel manipolare telefonini, anche nel mangiare (e bere) quel che adesso “va di più”. Le mode sono sempre esistite: trenta o quarant’anni addietro i genitori di questi giovanissimi affollavano altri locali ma tutti ugualmente dello stesso tipo, anche loro vestiti tutti allo stesso modo. E altrettanto facevano le generazioni precedenti, attenti a non passare per dei sorpassati, dei démodés, come dicevano i francesi.

C’è del buono, mi dico, in questa ricerca di omologazione quando si è ragazzi, qualcosa che ha a che fare col senso della comunità, forse anche una disponibilità generosa e sincera – consapevole o meno che sia – a scelte solidali. Ma l’omologazione comporta, di per sé, quello che da ragazzi non si può ancora vedere del tutto chiaro: il rischio di una certa assuefazione, per poi lasciarsi andare su binari ben noti e quindi in apparenza rassicuranti, che tuttavia non si sa dove portino. Una rinuncia a decidere da sé dove si vuole andare, e come. Dev’essere per questo che la tendenza all’omologazione, di cui ammiro la fresca ingenuità nei giovanissimi, non mi piace affatto quando la vedo permanere nei ragazzi cresciuti, i cosiddetti adulti. E mi sembra diffondersi ed estendersi fino a coprire tutto, eliminando via via gli spazi dell’autonomia di giudizio, della coscienza critica, della rivendicazione di responsabilità.

Eh sì, quando si passa dal vestirsi tutti nella stessa foggia o dal frequentare i medesimi locali al credere di pensarla pressappoco tutti in un unico, identico modo sulle cose del mondo, su quel che accade attorno a noi, vuol dire una cosa sola, che non si pensa più con la propria testa, ma si lascia che siano altri, pochi altri, a pensare per noi, per tutti. Perché è meno faticoso, ci libera dal fastidio del dubbio, e dà perfino l’illusione tranquillizzante della condivisione. In realtà non c’è condivisione di sorta nell’unanimismo indotto che pare dominare per tanta parte questa società ansiosa, impaurita, ripiegata su se stessa, quando vuole affidarsi soltanto a parole “forti”, in cerca di chimeriche certezze.

La condivisione c’è – e grazie al cielo continua a esserci, tra i giovani e tra i meno giovani – quando è il risultato del confronto, del dialogo, dell’incontro-scontro aperto, anche duro, che sa pervenire a una mediazione, a una sintesi, a una unità non di facciata. Tutto il contrario, in definitiva, di quella che si chiama omologazione.