La percezione è diffusa, le statistiche ce lo raccontano, gli allarmi si susseguono. Non è un paese per vecchi l’Italia, ma non lo è nemmeno per giovani alla ricerca di un lavoro che non c’è e che, prima o poi, dovranno fare i conti con l’età che avanza. Aveva cominciato alla fine dello scorso anno il presidente dell’Inps Tito Boeri, dicendo senza giri di parole che i trentenni di oggi rischiano di lavorare fino a 75 anni e prenderanno una pensione inferiore rispetto alle generazioni precedenti. Anzi, con l’attuale sistema contributivo, che penalizza pesantemente chi vive di contratti precari, in tanti rischieranno di non prenderlo proprio l’assegno. Il presidente della Bce Mario Draghi, nella scorsa primavera, aveva rincarato la dose: l’attuale generazione di venticinquenni, pur altamente formata, rischia di andare perduta nella persistente mancanza di sbocchi professionali.
Misure alternative
Colpa della crisi, certo, ma anche dell’ultima riforma delle pensioni. Varata nel 2011, la cosiddetta riforma Fornero ha introdotto criteri che hanno bruscamente alzato l’età pensionabile penalizzando in un colpo solo gli over 55, che vedono allontanarsi il momento di uscita dal lavoro, e i giovani, a causa del blocco del turn over. Anche per questi motivi, il Governo ha messo in campo una serie di misure con l’intento di smussare i tratti più aspri della riforma Fornero. Tra queste, la più significativa e controversa è l’Ape, l’Anticipo pensionistico con prestito bancario (ventennale), grazie al quale chi ha raggiunto i 63 anni potrà optare per il riposo prima dell’età prevista per la pensione di vecchiaia destinata a salire in rapporto all’evoluzione dell’aspettativa di vita. Critico Tito Boeri: «Non si può negare che rate ventennali di ammortamento pensionistico costituiscano una riduzione permanente della pensione futura». Le altre proposte: ricongiunzioni non onerose per chi ha versato in casse previdenziali diverse, misure per i lavoratori “precoci” (quelli che hanno lavorato per un certo periodo prima dei 18 anni d’età) e per i lavori usuranti. E un pacchetto di interventi per chi è in pensione con assegni troppo poveri: estensione della quattordicesima o della no tax area.
Senza il nostro contributo
Le pensioni potrebbero diventare la bomba sociale del futuro. Secondo i dati in possesso dell’Inps, la generazione nata negli anni Ottanta con le regole attuali rischia non solo di dover continuare a lavorare fino a 75 anni, ma anche di avere un assegno che è in media del 25 per cento inferiore alle pensioni attuali. L’ente previdenziale ha messo sotto osservazione la loro storia contributiva con uno studio da cui è emerso che un lavoratore- tipo (dipendente o artigiano) andrà incontro a “una discontinuità contributiva, legata probabilmente a episodi di disoccupazione, di circa 2 anni”. Un buco destinato a pesare sui requisiti per maturare la pensione: “2 anni senza contributi – continua il rapporto – costeranno alla classe 1980 un ritardo nel conseguimento della pensione anche di 5 anni, con il rischio di andare in pensione a 75 anni di età”. Solo per 4 trentenni su 10 sarà possibile andare in pensione prima dell’età di vecchiaia con una pensione che sarà pari al 60 per cento della busta paga (oggi è intorno all’80 per cento per un dipendente). Qualche assaggio del futuro che aspetta in particolare i precari viene dall’ultimo monitoraggio trimestrale dell’Inps sui flussi di pensionamento, pubblicato a luglio. Ebbene, la media dell’assegno liquidato ai 12.241 parasubordinati che hanno maturato i requisiti tra gennaio e giugno di quest’anno era pari a 191 euro, non molto dissimile dalla media di quelli liquidati nel 2015 (171 euro), per un’età media di 68,7 anni (era 67,6 nel 2015). Si va in pensione solo per vecchiaia (pari a zero le uscite anticipate), ma con assegni da fame che costringeranno, in molti casi, i malcapitati a lavorare ancora. Povere anche le pensioni dei commercianti (802 euro), degli artigiani (855 euro) e degli stessi dipendenti (1.101 euro).
Costumi atipici
Per gli atipici, in particolare, i problemi sono 2 e hanno origini storiche. Innanzitutto l’aliquota versata dai precari nella gestione separata è stata per lungo tempo inferiore rispetto a quella pagata dai colleghi con un contratto vero e proprio. Al 10 per cento nel 1996, è salita molto gradualmente per arrivare al 30 per cento nel 2016, contro il 33 per cento dei lavoratori dipendenti. Per i collaboratori, inoltre, il calcolo della pensione si fa esclusivamente con il metodo contributivo (cioè dividendo il totale dei contributi versati per un coefficiente di aspettativa di vita): se nei primi anni di lavoro i soldi accantonati nelle gestioni separate sono pochi, si finirà per scontare questa carenza una volta in pensione. Per non parlare delle casse professionali: dove i contributi non sono proibitivi rispetto ai redditi realmente percepiti, gli assegni assicurati possono essere davvero ridicoli. Un giornalista autonomo iscritto alla gestione separata, con una contribuzione media pari al 10 per cento del reddito attuale, probabilmente andrà in pensione con poche centinaia di euro all’anno. Una situazione imputabile innanzitutto all’esplosivo problema occupazionale dei più giovani, appena mitigata dagli effetti del Jobs Act. Con l’introduzione del contratto a tutele crescenti, il numero dei rapporti a tempo indeterminato è aumentato di più di mezzo milione di unità nel 2015 con una crescita media del 62 per cento rispetto all’anno precedente, e con punte del 76 per cento tra i giovani under 30. Con un contraccolpo nel 2016, a causa della riduzione degli sgravi riconosciuti.
Fermo posto
Ma trovare un posto per i giovani resta un miraggio: la disoccupazione giovanile resta ancora oltre il 40 per cento e si finisce per entrare nel mondo del lavoro tardi e male. Tanto più che dall’inizio della crisi si è verificato un altro fenomeno assai preoccupante. Il tasso di occupazione, cioè il rapporto fra occupati e popolazione nelle diverse fasce di età, era nel 2008 praticamente uguale fra gli under 30 e gli over 55; oggi è al 45 per cento fra chi ha più di 55 anni e al 12 per cento tra chi ne ha meno di 30. “Dal 2010 – si legge nel Rapporto Annuale dell’Inps, reso noto a luglio – ci sono in Italia 800mila occupati in meno tra chi è sotto i 30 anni d’età e 800mila occupati in più al di sopra dei 55 anni”. Un fenomeno non attribuibile alla sola demografia: “la Grande Recessione e la crisi dell’area euro – prosegue il Rapporto dell’Inps – hanno portato con sé una riduzione di circa un terzo dell’occupazione tra i giovani, ma il dualismo contrattuale, con giovani meno garantiti dai contratti temporanei, e anziani protetti da un regime dei contratti più stringente, non può spiegare completamente queste dinamiche così fortemente divergenti. È possibile che la riforma delle pensioni del 2011 – ammette l’Inps – abbia contribuito a questa divergenza”. Per verificare quanto il blocco del turn over abbia influito sulla disoccupazione giovanile, l’Istituto ha condotto un’indagine su 70mila imprese. Ebbene, la riforma Fornero avrebbe determinato in negativo la mancata assunzione di circa 55mila giovani – è la stima dell’Inps – e di molte migliaia di persone nel pubblico impiego. Ed è anche per questa ragione che il Governo ha deciso ora di correre ai ripari rendendo finalmente più flessibili le aspre misure introdotte dalla Fornero.
Ricchi e poveri
Più che una questione generazionale, di reddito.
Il vero nodo da sciogliere sulle pensioni secondo Gian Paolo Patta, membro della Commissione di vigilanza dell’Inps, perché con la riforma Fornero ad essere penalizzati sono tutti gli stipendi bassi
«Almeno 11 milioni di italiani rischiano di andare in pensione oltre i 70 anni, con una forte probabilità che la loro uscita dal mondo lavoro avvenga tra i 74 e i 75 anni. Il vero divario che ha creato la riforma Fornero non è tra giovani e vecchi, ma tra contribuenti ricchi e poveri».
Lancia l’allarme Gian Paolo Patta, membro della Commissione di vigilanza dell’Inps, che da statuto approva il bilancio dell’Istituto. Il presidente Boeri in vari interventi ha ribadito che il problema sono le pensioni dei giovani.
È un rischio fondato? Perché chi oggi ha 30 anni potrebbe trovarsi ad andare in pensione tardissimo.
«Boeri sbaglia a farne una questione generazionale. Certo, i giovani sono i più colpiti dalla precarietà, ma il punto vero è un altro. La riforma Fornero ha introdotto un meccanismo perverso che penalizza tutti gli stipendi bassi, al di sotto dei 23-24mila euro l’anno, con un risvolto micidiale per le donne, che hanno retribuzioni più povere rispetto alla media. Ai 20 anni di contribuzione necessari per maturare i requisiti per la pensione di vecchiaia ha aggiunto quello secondo cui il versamento deve essere tale da poterti garantire una pensione che sia una volta e mezzo l’assegno sociale. Parliamo, a conti fatti, di 155mila euro di contributi da versare in 20 anni, una cifra abnorme in contributi che una lavoratrice del settore privato impiegherà 40 anni per mettere insieme. Risultato: sono milioni i contribuenti in Italia che non andranno in pensione prima dei 70 anni, con il rischio che il criterio dell’aspettativa di vita sposti più in là il traintervista guardo. Altri milioni di contribuenti, i cosiddetti silenti, non avranno diritto all’assegno, perché non raggiungono i 20 anni previsti».
Se la situazione è questa, che cosa bisognerebbe fare?
«Va tolto il requisito dei 20 anni di contribuzione e fare come in Germania. I tedeschi non solo vanno in pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi, ma alle donne, le più penalizzate in Italia dalla Fornero, toccano 3 anni di contributi per ogni figlio, con il riconoscimento ai fini dell’anzianità contributiva anche del lavoro di cura per i figli e gli anziani. Qui da noi le donne non hanno nulla. Per i giovani, il problema principale rimane la continuità di reddito e di versamenti previdenziali. Il sistema tedesco, ad esempio, prevede contributi figurativi per i periodi di disoccupazione e per il liceo e l’università, che aiutano a raggiungere l’anzianità contributiva, con la possibilità dai 16 anni di età in poi di versare una piccola cifra mensile per la propria pensione».
Non c’è il rischio di tenuta del sistema previdenziale?
«Questa è una storiella che va sfatata. Se guardiamo alle sole prestazioni previdenziali il sistema è in equilibrio. Piuttosto, l’Inps provveda, come abbiamo richiesto, a fare ispezioni per quei fondi in forte passivo come, ad esempio, quello degli enti locali, dove secondo le stime ci sono almeno 2,5 miliardi di contributi evasi. E poi è un problema di priorità politica: in Germania, il 30 per cento della spesa previdenziale è coperta dallo Stato, proprio per sostenere chi avrà pensioni più basse. Bisogna decidere: se le pensioni dei giovani e delle donne sono un problema della società, allora è giusto che sia la fiscalità generale a farsene carico».